Ciò che è bene per la sinistra è male per l’Italia. Ciò che è male per la sinistra è bene per l’Italia.

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Si devono intraprendere le guerre per la sola ragione di vivere senza disturbi in pace (Cicerone)

No alla deriva

No alla deriva
Diciamo NO alla deriva

31 ottobre 2008

Lettera ai contestatori del Duemila

Non ho mai aderito ad uno “sciopero” studentesco.
L’unica volta in cui non entrai in classe a fronte di un “picchetto” fu per l’ultima Festa delle Matricole, nel 1970, celebrata “come una volta”.
Quando la sinistra organizzava “picchetti” per impedirci di entrare ero in prima fila a sfondarli.
Non ho mai tollerato che mi venisse imposta una scelta altrui con la violenza di uno sbarramento che mi voleva impedire di entrare a scuola (o al cinema, o in ufficio).
Altri miei compagni di classe e di scuola fecero la stessa scelta ed altri ancora una scelta differente.
Certo, io ho frequentato un liceo classico dove non si era mai occupato, solo in questi ultimi due anni ho letto che persino il vecchio e glorioso Galvani aveva subito tale onta.
Certo, ho avuto la fortuna di frequentare una scuola pubblica che, ancora, nel corpo insegnante come nel programma degli studi era fortemente influenzata dall’impronta impressa dalla Riforma Gentile, anche se in quei cinque anni, dal 1970 al 1975, subiva il pesante attacco nichilista che avrebbe poi, andati in pensione i vecchi insegnanti – sacerdoti di una Cultura e di un Sapere che temo siano andati definitivamente dispersi – disgregato la nostra istruzione.
Le mie nozioni risentono dunque di quel periodo e me ne sono accorto nel corso degli anni in cui mentre da una parte citavo Autori della Letteratura Italiana, Latina e Greca e vedevo espressione vacue sul viso di gran parte dei più giovani, dall’altra – fino ancora a pochi giorni prima della sua morte – avevo mio padre che mi coglieva in errore, ricordandosi, lui, quel che i miei più freschi anni di studio non ricordavano.
Purtroppo io, come gran parte – se non tutti – quelli della mia generazione non diedi retta, nonostante avessi fatto la scelta di stare dalla parte opposta della barricata rispetto ai “contestatori”, alla esperienza di mio padre e degli adulti che mi/ci invitavano a dare priorità allo studio.
Le lacune di allora ce le siamo portate dietro, tutti, con la conseguenza di abbassare il generale livello qualitativo della Cultura in Italia.
E non sto parlando, ovviamente, solo delle rimembranze letterarie, ma di tutto ciò che forma la base di una conoscenza che non può, non è, solo algidamente tecnica.
Ed è proprio il progressivo scomparire di una Cultura umanista che ha consentito il fiorire di tanti miti, fondati essenzialmente sull’effimero.
Negli anni ottanta il fenomeno degli Yuppies che, almeno, si erano posti degli obiettivi di carriera, ma dopo ?
All’estero hanno capito da tempo che il problema del futuro sta anche e soprattutto nella formazione culturale delle giovani generazioni.
Nella capacità di insegnare loro a studiare, a capire, ad interpretare, ad elaborare in modo autonomo, senza ridursi a ripetere le vuote liturgie degli slogan, dei "sentito dire" e dei pensieri altrui
All’estero l’hanno capito e, studiato il fenomeno, hanno anche capito che la scienza, disgiunta dalla conoscenza umanistica, rende arido il sapere.
Vediamo quindi un grande rifiorire di studi umanistici, la ripresa dello studio della lingua latina che è studio di un periodo fecondo per idee e profondità di pensiero, ma anche di Valori che devono essere ricordati e riscoperti.
In Italia la frammentazione politica, gli interessi particolari, le consorterie di vario genere, l’ipertrofia del pubblico e la “comodità” degli stessi genitori – che dovrebbero essere i primi a volere una scuola selettiva e non un diplomificio – ha ritardato gli interventi necessari per ripristinare il senso della Cultura.
Sono dell’idea che i più giovani, non ascoltino le “prediche” dei più anziani.
Fanno male e se ne accorgeranno e alcuni, in futuro, lo riconosceranno.
Ciononostante non rinuncio a fare un appello a voi ragazzi che oggi andate a scuola e all’università, perché facciateo quel che il vostro ruolo prevede: studiate !
E non perdete tempo ad occupare scuole, sfasciare beni privati, manifestare in piazza.
Fra trenta anni ai centomila che ieri erano in piazza resterà solo, da giocare nella ruota della vita, quel che hanno conseguito negli studi e non gli slogan che hanno urlato nelle piazze.
Non a tutti, però.
Qualcuno, qualcuno che oggi arringa gli altri come un capopopolo, metterà all’incasso il suo avervi trascinato per le strade, ottenendo posti in pubbliche “Authority”, oppure in redazioni di quotidiani, oppure qualche seggio in parlamento.
Uno su mille ce la fa, diceva una canzone di qualche anno fa, in questo caso, ancor meno di uno su mille.
Infatti ne è rimasto uno solo che, parlando del ’68, continua ad esclamare “formidabili quegli anni !”, come il venditore ambulante di pozioni “miracolose” di tanti vecchi film; pochi sono riusciti ad entrare nell’establishment politico-amministrativo, mentre la maggior parte degli altri, anche quelli che non si sono “bruciati”, sono rimasti, come minimo, con l’amaro in bocca.
Contestare la Riforma Gelmini, significa dare picconate al futuro vostro e della nostra nazione.
E ve ne accorgerete solo quando sarà troppo tardi, quando altri avranno approfittato della situazione, mentre voi eravate indotti a guardare in un’altra direzione.
Questo dice l’esperienza.
Liberissimi voi, di farne buon uso o di ignorarla.


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30 ottobre 2008

L'insostenibile irresponsabilità della sinistra

Dal 25 aprile 1945 in poi (magari anche prima visto quello che ha combinato tra il 1919 e il 1922 !) la sinistra ha sempre rappresentato la palla al piede della nostra nazione.
Ma fosse solo una palla al piede, la si potrebbe anche tollerare, il peggio è che è “proattiva” per portare danno, per gettare benzina sul fuoco, per distruggere senza offrire alcuna alternativa concreta ma solo chiacchiere e distintivi.
Lo videro, quelli che c’erano, nel 1948 con il fronte popolare, un tentativo rivoluzionario di conquistare l’Italia per portarla in dono a Stalin.
Lo videro, quelli che c’erano, nel 1953 con la propaganda sulla “legge truffa” che ci ha portato decenni di governicchi di compromesso, invece di un proporzionale con premio alle alleanze che, come si dimostra oggi, garantisce la governabilità.
Lo videro (io c’ero, ma non posso ricordarlo) nel 1960 con i fatti di Genova, una aperta ribellione ad una legittima maggioranza parlamentare, sfociata con il tentativo (riuscito) di impedire il Congresso di un partito, cioè la massima espressione di libertà e democrazia, conculcata da una piazza agitata dalla sinistra.
Lo vedemmo nel 1969 e anni seguenti, con “il salario è una variabile indipendente”, con le occupazioni nelle scuole e con gli anni di piombo che ne seguirono.
Lo vedemmo nel 1984/5 con l’opposizione alla abolizione di quell’anacronismo che era la scala mobile e con i moti di piazza organizzati per opporsi all’installazione dei missili Pershing e Cruise.
Erano gli anni del “meglio rossi che morti”, slogan agitato dalla sinistra, ancora una volta, per portare acqua al mulino della decadente tirannia comunista sovietica.
Lo vedemmo ancora nel 1992 e seguenti, quando la “gioiosa macchina da guerra” tentò di impossessarsi del potere, legittimandosi con un voto dopo l’assist fornito dalla magistratura che indagava su quella che fu definita “tangentopoli”.
Lo vedemmo nel 1994, con tutte le manifestazioni organizzate per impedire a chi era stato eletto dagli Italiani di governare e con le manovre di palazzo che ne determinarono la caduta e la spaccatura con la Lega, altro assist alla sinistra che riuscì ad andare al potere.
E cosa fece la sinistra al potere ?
Lotte interne a parte, si intende.
Tasse, tasse e ancora tasse.
Sulla sanità, per l’europa, l’aumento degli estimi catastali (che paghiamo ancora), l’aumento delle percentuali Ici a disposizione dei comuni, l’aumento delle aliquote fiscali.
Diventammo tutti più poveri.
Gioco forza che nel 2001 la sinistra fosse rispedita all’opposizione a calci nel sedere.
E allora, dopo che per un quinquennio la sinistra, non potendo fare l’unica cosa di cui era capace: distruggere, ma essendo preposta a costruire, combinò un disastro dopo l’altro, ecco che l’anima vera della sinistra riemerge.
E così vedemmo ben sette scioperi generali contro il governo e le sue 37 riforme e la feroce opposizione di piazza, come contro i Pershing e i Cruise, per opporsi alla liberazione dell’Iraq e ad una politica antiterrorista attiva e non passiva.
E ancora un biennio fatto di vuoto e di nulla, per ritornare alla classica sinistra, quella della irresponsabilità di piazza, chiamata a distruggere per impedire che quelli che sanno, facciano.
Ecco che la cgil, calzato l’elemetto, è scesa in trincea, sempre e comunque, per impedire che l’Italia possa realizzare quelle riforme del lavoro di cui abbiamo così tanto bisogno, ma anche mettendosi di traverso a salvataggi e riforme di istituti degradati come la scuola pubblica.
Ma i rappresentanti politici non sono da meglio.
Veltroni, che si presenta come un bonaccione con velleità culturali, si dimostra il più caciarone di tutti, comprensibile perché quando si arriva ai fatti le chiacchiere stanno a zero e conta la concretezza che l’ex sindaco di Roma non ha, se è costretto, per formulare una proposta, a chiedere quel che la sua sinistra ha sempre non solo negato ma fatto al contrario: la riduzione delle tasse.
Ecco che, con tutti problemi che ci sono, con la necessità di lavorare e lavorare sodo per recuperare produttività.
Con l’obbligo di dare una reale istruzione ai nostri figli e non incitamenti all’assemblearismo e alle manifestazioni di piazza, ma nozioni serie, concrete.
Nonostante tutto ciò la sinistra non trova di meglio da fare che sostenere gli scioperi, sostenere il più retrivo conservatorismo nella pubblica amministrazione, nella scuola, nella società, senza alcuna prospettiva per il futuro.
E, ciliegina sulla torta, indire un referendum sulla Riforma Gelmini, prima ancora che questa possa spiegare i suoi effetti, prima ancora che si possano avere dei risultati concreti da questa restaurazione di un passato felice e produttivo.
Quindi, pacatamente, serenamente, ma decisamente domando: come ci si può affidare o dare credibilità ad una sinistra così pervicacemente, inossidabilmente, insostenibilmente contraria agli interessi della Nazione ?
Con questa sinistra l’unica nostra prospettiva è una decadenza più o meno veloce, ma sempre decadenza.
E allora è opportuno anche chiedersi se il sistema politico che abbiamo sia una vera democrazia adeguata alle sfide globali di oggi, oppure se, almeno per una parte, questo assemblearismo continuo , queste chiacchiere vuote ed infinite, non significhino che siamo entrati in piena oclocrazia , con tutte le conseguenze e le opportune determinazioni del caso.

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29 ottobre 2008

Promossa a pieni voti la Gelmini

Finalmente si è arrivati al voto parlamentare.
Tante chiacchiere utili solo a gettare benzina sul fuoco per arrivare al voto finale sul processo di restaurazione che il Ministro Gelmini ha opportunamente iniziato.
Con 40 anni di ritardo, pur tenendo conto degli encomiabili tentativi della Moratti, solo oggi si cerca di invertire la rotta per la nostra istruzione.
Quaranta anni di sbornia sessantottarda che ci ha portato ad avere una scuola ed una università pubbliche tra le peggiori al mondo.
Da oggi si cambia.
Almeno questi sono i buoni propositi, speriamo siano mantenuti.
Chi vuole studiare e imparare sa che ha dalla sua le leggi dello stato.
Chi non vuole studiare o pensa di fare il furbetto dell’esamino, prosegua nelle sue manifestazioni, ma non impedisca a chi vuole studiare di frequentare corsi ed esami.
Soprattutto non accampi una lunga lista di pretese, tutte inevitabilmente più che costose, perché … “bambole, non c’è una lira !”.
Naturalmente non so se la Gelmini sarà in grado di fare quel che ai suoi predecessori (che non credo così sprovveduti o incoscienti da aver lasciato scientemente degradare la nostra istruzione) non riuscì: riportare la serietà negli studi.
Mi auguro, per il nostro futuro, che ce la faccia e che l’approvazione del suo decreto oggi sia solo il primo di una serie di tasselli che possano restaurare l’Istruzione con la “I” maiuscola come ai tempi in cui era pienamente vigente la Riforma Gentile.
E’ importante l’istruzione, ma è anche importante combinarla con le risorse disponibili, senza che i cittadini siano spremuti come limoni.
E non c’è solo l’istruzione da affrontare, perché la sanità e soprattutto la previdenza per i nostri Anziani che, più di ogni altro, meritano tutela e assistenza, lo sviluppo economico e la giustizia, l’Ordine pubblico e la Sicurezza, le infrastrutture e la difesa degli interessi nazionali all’estero sono tutti aspetti che riguardano il governo di uno stato e che richiedono investimenti con denaro pubblico.
E poiché i soldi non sono infiniti è necessario fare delle scelte, che si traducono in “tagli” alla spesa pubblica per dare più spazio alla libertà dei singoli nello scegliere come destinare i soldi che si guadagnano.
Questo significa che le tasse devono scendere ancora di molto, per tutti e che lo stato dovrà adeguare le sue spese alle minori entrate, anche per ritirarsi dalla nostra vita e, soprattutto, dalle nostre tasche.
Giocoforza che anche la scuola debba essere resa più efficiente, con classi che non siano frenate da presenza di elementi che, per motivi vari, rallentano l’apprendimento dei compagni di classe.
Significa che la scuola deve tornare ad essere selettiva e orientante.
Migliorare l’istruzione significa anche migliorare la qualità di chi deve usufruire di questa istruzione e, in prospettiva, migliorare la qualità dei professionisti che saranno gli amministratori, i medici, gli avvocati, i giudici, gli ingegneri di domani.
Il Ministro Gelmini ha detto una cosa molto giusta: non si spende poco per la scuola, si spende male.
Ridurre il fiume di denaro che si disperde in mille rivoli costringerà a spendere bene quei soldi che, ricordiamocelo, sono frutto del nostro lavoro e che devono essere utilizzati al meglio, sottraendone il meno possibile alla nostra autonoma, libera e privata disponibilità, per il futuro dell’Italia.

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28 ottobre 2008

Preferenze e quorum sono irrilevanti

Tanto per non farci mancare nulla, nel pieno di una crisi finanziaria che ha pesanti ripercussioni sulle nostre tasche, le polemiche strumentali di una sinistra incapace di interpretare le esigenze del Popolo senza filtrarle attraverso gli occhiali dell’ideologia, hanno preso di mira la Riforma Gelmini che punta a restituire Autorevolezza, Ordine e senso della Gerarchia alla dissestata scuola italiana da 40 anni in veloce discesa, e la legge elettorale per le elezioni europee del prossimo anno.
Della scuola abbiamo più volte scritto ed è inutile ribadire una posizione che ci vede sostenitori della svolta della Gelmini, con l’auspicio che tale cambiamento non solo sia portato a compimento senza compromessi, ma anche che si vada oltre per restituire all’Italia l’unica scuola degna di essere considerata tale, cioè quella fondata sulla Riforma Gentile.
Parliamo invece della legge elettorale che vede unite, in un unico abbraccio, tutte le opposizioni, parlamentari ed extraparlamentari, in difesa di proprie particolare esigenze, pudicamente coperte da una foglia di fico che vorrebbe essere nobile ma, in realtà, appartiene alla categoria dell’inutile e, a volte, del dannoso.
Questa foglia di fico è la preferenza.
Sembra l’ultima trincea di una opposizione che non ha più nulla da dire, se mai lo avesse avuto, viste le esternazioni di Veltroni sabato scorso a Roma, quando ha avuto la faccia di bronzo di proporre la riduzione delle tasse, lui che ha sostenuto, due volte !, quei governi che le tasse hanno invece aumentato e inventato di nuove.
La preferenza viene venduta come una occasione di democrazia, con l’elettore che ha la possibilità di scegliere - all’interno di una lista predeterminata dai partiti ! – uno o più candidati.
Mi ricordo le battaglie feroci, all’interno dei partiti, tra cordate di candidati, i loro “santini”, che facevano indiscutibilmente “colore”, ma non aggiungevano nulla ai temi sul tappeto, anzi i costi che sostenevano per la propaganda personale, diventavano spesso crediti (o debiti) da riscuotere o da pagare al momento opportuno.
Il tutto a danno della coerenza ideale e della efficienza amministrativa.
La preferenza non è un atto di democrazia, perché rimane all’interno di una oligarchia prescelta dai partiti, ma è uno specchietto per le allodole, costoso e inutile.
A volte dannoso se si considera che l’eletto con il voto di preferenza diventa debitore di chi lo ha sostenuto economicamente per la propaganda personale e rischia di essere una mina vagante, favorendo il salto della barricata in base alle necessità del momento, indebolendo il partito all’interno del quale è stato eletto con il voto di quegli elettori che, così, vedono tradito il loro stesso voto.
A maggior ragione una elezione basata sulla preferenza rischia di indebolire una già debole – per la presenza di una sinistra antinazionale – rappresentanza italiana in un parlamento europeo che è inutile, ma spesso fa danni votando provvedimenti demagogici che, immancabilmente, creano difficoltà alle nostre aziende e impediscono l’attuazione di provvedimenti nazionali che garantiscano Sicurezza, Ordine e Moralità.
La foglia di fico, diventa quindi non una nobile motivazione, ma una autentica palla al piede, perché l’unico modo per legare realmente l’eletto agli elettori è quello di realizzare collegi ristretti ed eleggere un rappresentante di collegio che possa essere rimosso dagli stessi elettori qualora tradisse il mandato (ad esempio chi, dopo aver fatto la campagna elettorale contro l’unione sovietica europea, vota il trattato di Lisbona …).
L’altro punto “qualificante” della battaglia delle opposizioni è il quorum.
E qui sono ancor più legittimato a denunciarne l’ipocrisia perché sono stato un elettore di un partito che non ha raggiunto il quorum il 16 aprile scorso, ma non per questo rinuncerò a votare un piccolo partito se rispecchierà la mia idea.
Non ha senso, anche per i motivi esposti prima, una rappresentanza di uno o due parlamentari, perché tutti gli eletti italiani dovrebbero fare gli interessi dell’Italia e non fare come gli arbitri che, quando dovessero dirigere la partita della loro squadra del cuore, per mostrarsi imparziali, si accanirebbero contro di essa.
E questa lo si ottiene meglio tramite gruppi compatti e consistenti.
Il problema non è nel quorum , ma nel riuscire a rappresentare una numericamente qualificata parte di elettorato.
Se non ci si riesce è giusto rimanere fuori e tentare, su basi nuove, la volta successiva, purchè non la si meni con il “voto utile”, perché l’unico voto utile è quello dato alla lista che meglio rappresenta le nostre idee.
Mi meraviglio, invece, che nessuno contesti in quella legge elettorale la norma che impone un pari numero di candidati uomini e donne.
A forza di “cucci e spintoni” le pasionarie neofemministe delle “quote panda” sono riuscite ad imporre una norma che distrugge il merito per premiare l’appartenenza ad un sesso, prodromica ad altre che potrebbero arrivare a premiare l’età piuttosto che il colore dei capelli.
Questa è l’autentica norma che dovrebbe indurre ad una battaglia contro la legge elettorale in discussione in questi giorni.
Preferenze e quorum sono irrilevanti.

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27 ottobre 2008

28 ottobre: ricordare non è "nostalgismo"

L’Italia è la nazione dalle mille ricorrenze, dai mille fatti “celebri”, dalle mille “giornate del”.
Le festività civili sono convenzioni che rispecchiano l’andamento delle vicende storiche e, spesso, la volontà di sopraffazione di una fazione su un’altra.
Così se fino al 25 aprile 1945 il 28 ottobre era Festa Nazionale, da allora ufficialmente si “festeggia” il 25 aprile e poi si aggiunge il 2 giugno, anche se non tutti vi si riconoscono.
E’ un segno evidente che non c’è una memoria condivisa in Italia e che è arduo individuare una festività nazionale unificante.
Potrebbe essere, con buona pace degli altoatesini ai quali io concederei il diritto alla secessione previo referendum (e li vorrei vedere essere il sud dell’Austria senza più tutti i soldi pompati da Roma…) , il 4 novembre, ma, ancora, il 4 novembre è una “ex” festività.
In mancanza quindi di un data che unisca tutti gli Italiani, non sarebbe male pensare a rendere ex festività anche il 25 aprile e il 2 giugno, magari estraendo a sorte un giorno per celebrare la Festa Nazionale e lasciando ad ogni fazione la libertà di “festeggiare” il suo personale giorno fortunato.
Ma se ognuno di quei giorni (7 gennaio, 21 marzo, 21 aprile, 25 aprile, 2 giugno, 28 ottobre, 4 novembre …) appartiene solo ad una parte degli Italiani, tutti, indistintamente, appartengono alla nostra Storia e meritano di essere ricordati per il significato e per le conseguenze che hanno avuto per la nostra Italia.
Il 28 ottobre, anniversario della Marcia su Roma, è la data che viene convenzionalmente indicata come quella da cui ebbe inizio il Ventennio Fascista.
Se anche fosse solo per il tempo trascorso sotto il governo Mussolini, il Ventennio ha sicuramente un posto di primaria importanza nella Storia patria e il 28 ottobre, quindi, entra di diritto nei libri di storia per essere ricordato alle future generazioni.
Un ricordo che, ormai, non assume più alcun connotato nostalgico visto che ben pochi saranno rimasti in vita i protagonisti di quell’epoca (e quei pochi, forse, non più tanto lucidi in ricordi annebbiati dal tempo).
Quindi è un ricordo che colloca il Fascismo e il Ventennio là dove deve stare: nella Storia.
Con i suoi aspetti negativi e con i suoi aspetti positivi uno dei quali lo possiamo ricordare qui, in concomitanza con una crisi che sembra mordere più di quella del 1929, quando l’Italia ne uscì meglio – con meno danni – di altre nazioni perché eravamo certo più arretrati, ma anche perché il modello di sviluppo adottato dal Fascismo aveva posto al centro realizzazioni concrete, tangibili e non l’astratta finanza che, allora come ora, aveva costruito castelli di carta destinati a crollare.
E’ abbastanza scontato citare Vico e i suoi “corsi e ricorsi”, ma dalla storia del passato possiamo vedere come, ciclicamente, certe questioni si ripropongono, come, per l’appunto, la crisi della finanza.
Ricordiamo dunque il 28 ottobre, senza spirito di parte, perché anche in quel che accadde il 28 ottobre 1922 affondano le nostre radici e ha formato l’Italia del 2008.

28 ottobre 2005

28 ottobre 2006

28 ottobre 2007


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26 ottobre 2008

Si torna a parlare di pensioni

Siamo in crisi.
La borsa, l’indice più oggettivo che ci sia sullo stato di salute di una economia, ha perso decine di punti percentuali.
E’ minacciato il nostro Benessere e quell’elevato tenore di vita cui ci siamo prontamente abituati.
Mi piace una pubblicità televisiva – non mi ricordo di quale prodotto – che fa vedere i “gesti che ci siamo dimenticati”, come cambiare manualmente il canale della televisione.
Ce li siamo dimenticati perché, come per la televisione i comandi a distanza, è stato reso tutto più facile, più comodo.
Ma non senza un prezzo.
Il prezzo è quello dei costi, della necessaria disponibilità di denaro.
Sta circolando, con la solita catena di S. Antonio, questo video in formato pps .
Ora, l’ultima sequenza è opinabile, perché noi non dobbiamo ringraziare per come stiamo in rapporto ad una situazione, come quella documentata dalle fotografie precedenti, relativa a nazioni arretrate culturalmente, socialmente, economicamente e politicamente come l’India, ma dobbiamo avere sempre l’aspirazione a migliorare.
Ma è indiscutibile che quando si discute di protocollo di Kyoto e connessa direttiva europea che imporrebbe a noi, nazioni evolute, limiti onerosi, mentre consentirebbe a nazioni come l’India di sforare allegramente gli stessi limiti; quando si parla di sicurezza sul lavoro e si accollano alle aziende i costi per garantire un ambiente di lavoro sicuro e confortevole, orari equilibrati tra il lavoro e la vita privata, limiti agli straordinari e quant’altro mentre in nazioni come l’India tutto questo non accade; quando davanti a tutto ciò non si vuole neppure imporre dazi che riequilibrino quei costi da noi sopportati per produrre nei confronti di merci a bassissimo costo realizzate – in quel modo - altrove, allora è evidente che ci troviamo davanti a dover fare delle scelte relative al nostro modello di sviluppo.
Il Mondo, da sempre, è incamminato su un percorso di progresso che ha reso la vita più facile all’Uomo.
Se vogliamo continuare in questo percorso, dobbiamo scegliere un modello di sviluppo che, salvaguardando ciò che abbiamo conquistato, ci proietti verso il futuro, migliorando la qualità della nostra vita.
Ma la “qualità della vita” non è uguale per tutti.
C’è chi è interessato a situazioni di carattere filosofico-speculativo, chi a beni essenzialmente materiali, chi si appaga interiormente e chi invece è appagato solo dalla esibizione di oggetti, la “Roba” del Verga, effimeri ma non per questo forieri di minore soddisfazione per chi li possiede e li può mostrare ad amici e conoscenti.
Non ci può quindi essere una regola uguale per tutti, ma solo un quadro di insieme all’interno del quale ognuno possa scegliere dove collocarsi.
Ovvio che il governo di una nazione deve garantire, tramite tasse “eque e sostenibili”, i servizi essenziali quali la Sicurezza, l’Ordine, l’Istruzione di base, la Salute, la Difesa degli interessi nazionali.
Questo, sul piano economico, si può ottenere applicando quei dazi che non si devono introdurre sulle merci provenienti da nazioni che hanno sistemi di controllo e produzione onerosi quanto i nostri, ma sono d’obbligo, per ripristinare una par condicio violata alla fonte, nei confronti di quegli stati i cui sistemi produttivi si basano su un basso costo del lavoro a scapito della sicurezza e della qualità dell’esistenza dei lavoratori che da noi rappresentano un costo non secondario del manufatto.
Ma dobbiamo anche prendere atto che l’aumento della media della nostra vita, rende particolarmente onerosi i sistemi pensionistici, obbligando gli stati ad interventi sempre più pesanti per garantire pensioni sempre meno adeguate.
In questo quadro il Vice Direttore della Banca d’Italia, con una espressione che sarà sicuramente ripresa, ha affermato che per mantenere il nostro tenore di vita, dobbiamo lavorare in più, di più e per più tempo.
Le reazioni si sono focalizzate sull’ultimo punto: per più tempo, cioè una nuova riforma delle pensioni che allontani tale traguardo.
Personalmente non ne farei un dramma.
Anche se, rebus sic stantibus, io avrei maturato (con gli anni riscattati per la laurea e il militare) 31 anni di anzianità e andrei quindi in pensione con il retributivo, considerando che la media di vita si avvicina agli 80 anni, non riterrei “macelleria sociale” l’aumento dell’età pensionabile a 65 anni.
Per tutti.
E per tutti significa per gli uomini, ma anche per le donne che attualmente si “fermano” a sessanta anni.
Ma vi sono altri due corollari da rispettare se vogliamo che questo provvedimento sia efficace da subito.
Abolire la pensione di anzianità con 40 anni di lavoro, per avere, come unico traguardo, la pensione di “vecchiaia”.
Abolire la differenza – ovviamente ex nunc (cioè per chi è attualmente al lavoro, non per chi è già andato in pensione) – tra retributivo e contributivo, cioè tutti in pensione con il contributivo.
E’ evidente che questo provvedimento favorisce o, meglio, non danneggia i più giovani, mentre penalizza i più anziani, ma quando si cambiano le regole del gioco c’è sempre qualcuno che perde e qualcun altro che guadagna.
Una perdita, peraltro, ampiamente compensata dal mantenimento di un tenore di vita adeguato e, soprattutto, dalla certezza che, in questo modo, si abbia la certezza che la pensione sarà pagata a chi già è in pensione (cioè i più deboli), a chi ci deve andare nei prossimi anni e a chi si affaccia ora nel mondo del lavoro.
Una certezza che, oggi, nessuno ha.
Non sarà certo facile convincere chi oggi sta assaporando il traguardo dei quaranta anni o chi pensava di avere una pensione più consistente in virtù del sistema retributivo, a rinunciarvi, ma è una scelta obbligata che consente a molti di perdere poco a fronte di una alternativa che imporrebbe a pochi (in rapida e progressiva crescita) di perdere molto.
E’ anche vero che non tutti i lavori sono gratificanti e che per uno che resterebbe senza problemi al suo posto anche fino ai 65 anni perché gli piace ciò che fa, ve n’è un altro per il quale, invece, ogni mattina è una sofferenza non il lavoro in se, ma quel particolare lavoro cui gli pare di essere inchiodato come i servi della gleba del periodo medioevale.
E’ un problema di difficile soluzione che può essere alleviato, ma non risolto, da un contratto che preveda rotazioni nei compiti e da una maggiore flessibilità del mercato del lavoro che consenta più agevolmente di cambiare.
Ma può essere anche affrontato radicalmente – e qui torniamo alle scelte personali – consentendo un anticipato ritiro con l’avvertenza che, comunque, la pensione maturata con base il contributivo, sarà erogata non prima del compimento del sessantacinquesimo anno di età.
In pratica uno può ritirarsi dal lavoro o, meglio, da quel lavoro, ben sapendo che non avrà la pensione prima di un certo tempo e in base a quanto effettivamente versato in contributi.
E’ una scelta, consapevole, che non esclude affatto la possibilità che, raggiunto un certo livello professionale e una certa disponibilità economica, uno scelga di ritirarsi oppure scelga di “rischiare” aprendo o accedendo ad un’altra attività.
E qui evidenziamo le altre due indicazioni del Vice Direttore della Banca d’Italia: lavorare in più e di più.
Abbastanza evidente il proposito di aumentare l’occupazione e il tempo dedicato al lavoro.
Ma anche qui deve essere una scelta individuale, nella quale entra l’elemento soggettivo delle necessità personali, di cosa uno vuole dalla vita, dal lavoro e quanto è disposto a faticare ed a rinunciare per ottenerlo.
Non deve essere vietato ritirarsi a “vita monastica” (o quasi …) se, dopo anche pochi anni di lavoro, uno volesse mettersi a contemplare l’ombelico per pensare al trascendente, oppure rispondere all’ancestrale richiamo della coltivazione della terra.
L’importante è che sia chiaro che i servizi costano “tot” e che, pertanto, chiunque voglia usufruirne deve pagare “quot”, che non si chiedano quindi contributi statali, agevolazioni, sconti, privilegi.
Basta saperlo prima.
Ognuno è libero di scegliere la vita che più gli sembra confacente, ma non deve ribaltarne i costi sul prossimo se le sue scelte si rivelassero un fallimento.
Per questo ben venga l’affrontare, una volta per tutte, la questione della pensione, purchè sia la volta definitiva, anche se dolorosa per alcuni, e non il solito pannicello che, dovendo rinnovarlo dopo uno o due anni, rende tutto provvisorio e non consente alcuna programmazione per il proprio futuro.
Patti chiari, amicizia lunga.

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25 ottobre 2008

Salva l'Italia ...

… lascia la sinistra all’opposizione !
Oggi la sinistra, unita come sempre quando c’è da fare delle piazzate, manifesterà contro il governo.
Veltroni, alle critiche di Berlusconi, non ha trovato di meglio che rispolverare il suo dna comunista per ricordare che anche il Centro Destra manifestò contro Prodi.
Veltroni, da buon comunista, dimentica però di dire che la manifestazione del Centro Destra era finalizzata ad ottenere il riconteggio dei voti, essendo assai dubbia la regolarità del risultato finale delle elezioni del 2006 conclusesi sul filo di lana.
Oggi, invece, non v’è dubbio alcuno sulla vittoria di Berlusconi che, quindi, ha i numeri e la legittimità per governare in base alle sue volontà che sono anche quelle di chi lo ha votato.
E nel pieno di una crisi finanziaria che diventerà (se già non lo è diventata: basta chiedere a chi frequenta fiere e lavora a stretto contatto con le aziende) economica attizzare il fuoco degli scioperi, dei disordini di piazza, per i soli fini di politica interna e, per di più, in un gioco di potere interno alla sinistra, è irresponsabile.
Per cui lo slogan ideato dai pubblicitari di Veltroni è perfettamente idoneo, completandolo, a sintetizzare il quadro politico: salva l’Italia, lascia la sinistra all’opposizione.
Ma anche Berlusconi ci mette del suo nel creare disagio nell’Italia che lavora, l’Italia che vuole studiare, l’Italia che vuole produrre, l’Italia che non va in piazza, l’Italia della maggioranza silenziosa.
Non si può cedere alle pressioni di stagionati sessantottini infiltrati nel “partito di centro, moderato e liberale” e smentire se stessi sull’uso delle Forze dell’Ordine per ripristinare il diritto allo studio ed al lavoro conculcato dalla violenza di chi occupa e fa picchetti.
Un governo che si proponga di restituire dignità all’Italia, deve essere un governo del premier che faccia seguire i fatti alle parole, soprattutto quando si parla di ordine pubblico e sicurezza.
L’Italia, che ha sempre avuto più economia reale e meno finanza di carta di altre nazioni, potrebbe sfruttare al meglio questa crisi internazionale, per arretrare meno di tanti altri.
Ma questo presuppone che si lavori, si studi, si operino quei tagli necessari (neanche dolorosi se non per quanti si erano comodamente sistemati in nicchie di privilegio parassitario) per premiare il merito, la capacità, l’intraprendenza, dando a ciascuno il suo.
Il governo deve fare, senza tante chiacchiere, compromessi, equilibrismi.
L’opposizione, invece di gettare benzina sul fuoco solleticando le velleità fancazziste e piazzaiole di pochi, vada in parlamento per proporre alternative, senza fare ostruzionismo che avrebbe come unico risultato la cassazione di ogni dibattito costruttivo per l’approvazione, tramite voto di fiducia, dei provvedimenti del governo.
Non è tempo di assemblearismi, è tempo di decisioni.
Salva l’Italia, lascia la sinistra all’opposizione !

APPENDICE FRANCESE:

Sarkozy si è imbufalito perché la magistratura francese, forse per un errore, ha liberato un presunto stupratore che avrebbe dovuto restare in prigione in attesa del giudizio.
Sarkozy pretende che costui venga rimesso in galera.
E’ la nemesi, caro Sarkò.
Tu hai liberato e proteggi una terrorista assassina e adesso ti tieni un presunto stupratore libero per le tue strade.
A volte c’è una giustizia cosmica, seppur indiretta.

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24 ottobre 2008

Dire no ai tagli significa dire sì agli sprechi

In questi giorni di neocontestazioni studentesche, le litanie degli okkupatori che ho ascoltato più frequentemente erano:
- la scuola/università è pubblica e deve restare pubblica
- vogliamo una scuola/università a misura di studente
- vogliamo una scuola/università che fornisca un titolo di studio qualificato
- vogliamo il tempo pieno e tutte le maestre

ma, soprattutto
- no ai tagli.
Ora il secondo e terzo punto non meritano neanche di essere commentati.
Rappresentano solo il miserrimo tentativo di dare una patina di nobiltà ad una contestazione che di nobile non ha proprio nulla.
Sul tempo pieno, il maestro unico e via discorrendo si innestano con ogni evidenza considerazioni di carattere meramente utilitaristico ed egoistico (l’essere liberi dalla educazione dei figli) con una forte ignoranza dovuta alla trasformazione della scuola elementare in un asilo infantile prolungato dove, in realtà, invece di insegnare – come quando la frequentai io – i rudimenti di italiano, storia, matematica e geografia, oltre a comportarsi in modo disciplinato ed ordinato, a rispettare l’Autorità e la Gerarchia, si accettano i capricci dei bambini, in base a “innovative” teorie, lasciandoli “liberi di esprimersi” (cioè fare caos e non imparare nulla).
Così la scuola media deve svolgere quella funzione che una volta era delle elementari ed è indubbio che, in tal modo, si procede ad un progressivo scadimento della qualità della nostra istruzione.
Sul fatto che scuola e università devono essere pubbliche c’è un clamoroso fraintendimento da parte degli okkupanti.
Il “pubblico” loro lo interpretano come “lassista”, come spendaccione, come se tutto fosse dovuto, come se non dovesse confrontarsi con degli equilibri di bilancio.
Ebbene, okkupanti, sappiate che il pubblico, visto che è pagato da tutti noi e non solo dai vostri genitori, deve trovare un equilibrio tra entrate e uscite.
Sappiate che i servizi, tutti i servizi, si pagano e se magari lo stato può stanziare una certa cifra per l’istruzione obbligatoria, quella superiore e universitaria non deve essere posta a carico della collettività, ma pagata da chi ne usufruisce.
Magari lo stato può, come negli Stati Uniti, disporre dei prestiti per gli studi che dovranno però essere tassativamente restituiti, con i relativi interessi.
Probabilmente, se così si fosse fatto sin dall’inizio, non sareste ad occupare scuole e facoltà, perché il costo ricadrebbe, indirettamente visto che sarebbero i vostri genitori a pagare, su di voi.
I servizi si pagano e la Riforma Gelmini intende avviarsi, con le Fondazioni, su questa strada.
Gli studenti si iscrivono ad una determinata scuola, una determinata università e pagano la loro quota in cambio dei servizi che ricevono.
E’ evidente che più l’istruzione è qualificata, più studenti ci sono, più disponibilità finanziarie ha quell’istituto e quella università per migliorare la qualità del servizio e le retribuzioni dei docenti, potendo così assumere gli insegnanti migliori.
E, naturalmente, viceversa.
E veniamo ai “tagli”.
Non devono essere tagliati i dipendenti pubblici.
Non devono essere tagliate le spese sanitarie.
Non devono essere tagliate le spese per il mezzogiorno.
Non devono essere tagliate le spese per le pensioni.
Non devono essere tagliate le spese (a fondo perduto) per i paesi sottosviluppati.
Non devono essere tagliate le spese per le Forze Armate e le Forze dell’Ordine (e qui sono perfettamente d’accordo).
Non devono essere tagliate le spese per le rappresentanze all’estero.
Non devono essere tagliate le spese per la giustizia.
Non devono essere tagliate le spese per scuola e università
.
In pratica, a guardare singolarmente ognuna di queste categorie , è apparentemente giustificata ognuna di queste pretese e delle altre che ho omesso.
Ma il bilancio dello stato è basato su entrate e uscite, dove le uscite non finiscono mai se si dovesse dar ascolto alle richieste dei vari postulanti, mentre le entrate sono rappresentate dalle nostre tasse che sono già sin troppo alte, direi eccessive.
Allora non ci rimane che tagliare, ovunque, con giudizio, obbligando le singole strutture ad evitare gli sprechi e a far pagare, anche solo al prezzo di costo, i servizi che vengono erogati.
E’ facile demagogia dire “vogliamo” o dire “non si tagli”.
Ma chi fa simili affermazioni deve anche dire dove andare a prendere i soldi, perché quella demagogia ci porterebbe tutti alla bancarotta, alla povertà e avremmo sia i tagli che la miseria.

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23 ottobre 2008

A scuola per studiare,non per occupare

Io, "sopravvissuto" al ’68 e al ’77, continuo ad affrontare il tema della scuola anche se non piace a qualche studentello che, invece di studiare, passa il suo tempo libero dalle manifestazioni, assemblee e occupazioni, in giro per internet.
Ieri Berlusconi ha fatto affermazioni importanti, sacrosante e che avrebbero meritato di essere immediatamente tradotte in fatti: non sarebbero state più tollerate occupazioni e violenze contro chi vuole studiare e si sarebbe utilizzata all’uopo la Forza Pubblica.
Purtroppo così non è stato.
Berlusconi ha fatto marcia indietro e, invece di impartire “precise e dettagliate disposizioni” a Maroni, si deve accontentare delle solite, inutili, “riunioni operative” al Viminale.
Qui c’è poco da discutere e disquisire.
Occupando una scuola o una facoltà si impedisce a chi vuole studiare di studiare ?
Sì, perché si impedisce il regolare svolgimento delle lezioni.
Una scuola o una università pubblica occupate, non svolgendo le regolari lezioni, sono responsabili di interruzione di pubblico servizio ?
Sì, perché l’insegnamento, le lezioni, gli esami sono un diritto degli studenti.
Un preside o un rettore che non provvedono, con ogni mezzo, a riattivare lezioni ed esami, sono responsabili di ogni evento (danno o incidente) che dovesse accadere ?
Ancora una volta la risposta è sì.
E allora, perché latrare tanto contro le parole del premier ?
Semmai si dovrebbe protestare perché tardive.
Protestare perché lo sgombero di scuole e università non sta ancora avvenendo.
Non si deve fare marcia indietro e, addirittura, convocare una riunione con dei fantomatici rappresentanti degli studenti.
Non viene messo in discussione il diritto a manifestare.
Come non viene messo in discussione il diritto allo sciopero dei lavoratori ( non certo degli studenti ai quali non spetta !) se lo stesso viene effettuato all’interno di precise norme che lo regolano.
Qui si dice semplicemente che non devono essere tollerate violenze nei confronti di chi vuole studiare e non partecipare alle sommosse, di chi vuole lavorare e non scioperare.
Il più basso livello raggiunto dai movimenti del ’68 e del ’77, come pure da quello dei lavoratori, è stato (ed è) quando un gruppo di nerboruti esecutori di ordini si frappone davanti alla porta o ai cancelli di ingresso, impedendo l’accesso a chi vuole esercitare un proprio diritto: il “picchetto”.
E’ violenza e lo stato deve sanzionarla e garantire l’accesso alle aule e ai luoghi di lavoro, anche usando la Forza Pubblica.
Spiace vedere che Berlusconi abbia fatto marcia indietro, come spiace vedere che Polizia e Carabinieri sono ancora confinati nelle Caserme.
Se vogliamo evitare di ricominciare il circolo vizioso che iniziò (convenzionalmente) nel ’68, se vogliamo evitare di ritrovarci con nuovi “cattivi maestri” che passano la vita ad incassare i dividendi delle distruzioni operate sulla pelle dei babbei che hanno creduto nelle loro parole, dobbiamo sollecitare il governo a togliersi il guanto di velluto e usare finalmente il pugno di ferro.

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22 ottobre 2008

Sarkozy si crede Napoleone ?

Non bastasse l’aver violato la parola data (consegnare alla giustizia italiana Marina Petrella) cambiando idea e proteggendo una terrorista assassina ora libera in Francia, Nicholas Sarkozy, in un inutile discorso davanti al dannoso parlamento europeo, ha sostenuto la necessità di procedere con il piano di riduzione delle emissioni cosiddette “nocive” per l’ambiente, fortemente osteggiato dal governo Berlusconi.
Probabilmente il presidente francese, di turno in un momento importante della crisi dei mercati, si è sentito investito, per grazia Divina, di una missione napoleonica.
E forse pensando al suo predecessore a capo dei francesi, ha creduto di poter dirigere tutte le nazioni europee in base ai suoi voleri.
Devo riconoscere a Berlusconi il merito di non aver ceduto, come avrebbero fatto altri, e di aver ribattuto con precisione, ribadendo le ragioni che inducono a chiedere la revisione del programma, per agevolare la produzione e la libera impresa rispetto alle paturnie degli ecoambientalisti.
Spero che i socialisti, di cui è pericolosamente infarcito il suo governo, non riescano ad irretirlo per fargli accettare ciò che è contro l’interesse nazionale accettare.
Ma la vicenda di Sarkozy che sottrae alla lieve pena una terrorista assassina come un Mitterand o uno Chirac qualunque e sposa le improbabili ragioni del business ecoambientalista, mi consente di ampliare il tiro contro tutti coloro che carpiscono il voto in buona fede degli elettori di Destra e di Centro Destra, sulla base di una campagna elettorale “Legge e Ordine” e poi spendono quegli stessi voti a favore di chi contrasta i principi di Civiltà e le Radici Culturali dei medesimi elettori.
Di Sarkozy abbiamo già detto, ma vorrei ricordare il neoantifascista Fini; Brunetta e Rotondi con la loro proposta sulle cosiddette “unioni di fatto” che sancirebbe le “unioni” tra omosessuali, per giungere a Colin Powell che, ampiamente gratificato dalla Destra Conservatrice Americana, si scopre improvvisamente incline ad ascoltare il richiamo della foresta, abbandonando chi lo aveva valorizzato, premiato, arricchito e reso famoso.
Allora credo che alle prossime elezioni, a qualunque livello, si debba fare una analisi accurata di chi si presenta nelle varie liste e concedere la propria preferenza solo a chi potrà dimostrare quattro quarti di “nobiltà”.
Cioè non avere mai avuto rapporti con i comunisti, mai avuto cedimenti al “politicamente corretto”, mai rinnegato le nostre Radici che sono Romane e Cristiane.
Non vi è nessun politico con un simile pedigree ?
Allora mi comporterò come Ulisse con Polifemo e dichiarerò il mio voto al signor Nessuno.
Ma questi politici che prendono voti a Destra e li spendono a sinistra, hanno finito di ingannarmi.

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21 ottobre 2008

Reprimere e sanzionare i disordini

Nel leggere le cronache dei disordini studenteschi, con occupazioni di scuole e facoltà, irruzioni nei rettorati, lezioni interrotte, programmi stravolti, anche con la complicità di alcuni insegnanti e genitori, il tutto condito dalle solite devastazioni (e temo siamo solo all’inizio) mi è venuto spontaneo, da cittadino costretto a pagare troppe tasse, pensare che a costoro (docenti, genitori e studenti) dovrebbero essere addebitati tutti costi dei loro comportamenti.
Purtroppo in passato abbiamo visto che mentre un gruppo di esagitati rompevano, i danni erano a carico della collettività.
E’ ora di finirla con questo sistema.
O pagano o venga revocato il loro diritto di voto.
Chi rompe paga e i cocci sono suoi, recitava un antico proverbio della saggezza popolare.
Al giorno d’oggi, però, chi rompe non paga (veggasi Genova luglio 2001) e, anzi, chi cerca di impedire le devastazioni finisce pure sotto processo per qualche scappellotto educativo finito sulle zucche dei contestatori.
Credo che i cittadini onesti ne abbiano abbastanza dei disordini di piazza, degli scioperi, dei ritardi, delle tasse che si pagano in misura esorbitante anche per colpa di chi rompe senza pagare.
Il governo Berlusconi è andato al potere con i voti di chi voleva fortissimamente ripristinare l’ordine e la sicurezza.
In pochi mesi la Lega, che pure era la punta di diamante in tale ambito, ha perso per strada:
- il reato di ingresso clandestino
- le impronte ai rom
- il divieto di costruire altre moschee
- l’opposizione all’europa
- il blocco degli sbarchi e relative espulsioni
.
Come se non bastasse, anche la proposta di creare classi differenziate sta, gradualmente, perdendo forza e davanti a nuovi moti studenteschi, invece di garantire il diritto allo studio a chi vuole studiare, la presenza della Polizia e dei Carabinieri sembra inesistente.
In compenso si vocifera della candidatura dell’Avv. Frigo alla corte costituzionale.
Ottimo avvocato, principe del Foro, già presidente dell’Unione Camere Penali, ma un po’ troppo formalista e, invece, adesso avremmo bisogno di sostanza, non di formalità.
Se non ci riesce con le buone, allora dobbiamo ottenerlo con le cattive.
Con la repressione, ma anche con una sanzione che, forse, è quella più temuta da tutti noi: far pagare i danni.
Ma non simbolicamente, come è accaduto finora, bensì materialmente, al costo di riparazione o sostituzione, mano d’opera inclusa.

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19 ottobre 2008

No al progetto Sacconi sullo sciopero

Nei giorni scorsi, nel pieno della vicenda Alitalia, ho scritto una serie di post di carattere generale su sindacato e il suo ruolo (qui il collegamento ad uno di essi).
Nel leggere la proposta di Sacconi – che forse si trasformerà in decreto legislativo – e i commenti che ne sono seguiti negli ambienti liberalliberisti, mi sembra che se da un lato (Sacconi) emerge il socialista che è in lui, dall’altro (giovani liberalliberisti) si scriva per partito preso senza ben comprendere le conseguenze di quel che propone Sacconi.
Se escludiamo la Cgil che, ormai, come Veltroni, ha indossato l’elmetto ed è scesa in trincea “a prescindere”, dovremmo considerare le tiepide reazioni di cisl, uil e anche ugl al progetto Sacconi ed il silenzio che circonda le proteste dei sindacati autonomi di categoria.
La sostanza del progetto Sacconi, infatti, ruota intorno ad un obiettivo che i confederali perseguono da lungo tempo: l’eliminazione di ogni concorrenza aziendale e di categoria.
Non è tanto il referendum per approvare o meno lo sciopero o l’obbligatorietà della notifica individuale se vi si partecipa o meno, quanto le limitazioni ulteriori nei confronti dei sindacati che i quotidiani traducono “con pochi iscritti”, ma che, in sindacalese, si scrive “che non sono maggiormente rappresentativi”.
Ora la questione della “rappresentatività” di un sindacato trova almeno due livelli interpretativi.
Quello che prende a parametro l’azienda o la categoria, allora sono “maggiormente rappresentativi” tanti sindacati autonomi (come abbiamo visto in Alitalia con l’Anpac, ad esempio).
Con questa interpretazione in molte categorie i sindacati confederali trovano un oggettivo limite alla loro cogestione con i datori di lavoro e sono “costretti” a fare più i sindacati che del lobbismo politico.
Ma, purtroppo, molti esperti di diritto del lavoro (io mi ricordo di aver preso un “24” in diritto del lavoro solo perché sostenevo la legittimità del fallimento come istituto, mentre l’assistente che mi interrogava lo riteneva un istituto capitalista da abolire … tanto per dire da dove nascono simili esperti !) stanno producendo scritti che potrebbero in prospettiva trasformarsi in giurisprudenza, nei quali la “rappresentatitività” la si misura in base alla diffusione nazionale del sindacato, quindi nella sua presenza in tutte le categorie.
In sostanza è una interpretazione che penalizza il vero sindacalismo – che è quello aziendale e di categoria – per premiare, consegnando il monopolio della rappresentanza, i sindacati confederali, emanazioni di lobby partitiche e, quindi, compartecipi della casta dei partiti (come si vede da tutti i sindacalisti che passano in politica: D’antoni, Lama, Pezzotta, Benvenuto, Del Turco, Marini, Cofferati, tanto per fare alcuni nomi).
E’ altresì noto che i sindacati sono orientati a sinistra (socialisti, comunisti, democristiani di sinistra) o se, nominalmente di destra, si piegano ai diktat della sinistra pur di "andare al tavolo" con gli altri (ugl che ha partecipato, aderendo, a tutti gli scioperi generali contro Berlusconi nel quinquennio 2001-2006 e che, comunque, è in linea con il neoantifascista Fini) e, quindi, sono fondamentalmente assistenzialisti, per incrementare la spesa pubblica, tassatori (fu Pezzotta a dichiarare che le tasse sono belle, poi ripreso, per interesse oggettivo, da Padoa Schioppa), cioè il contrario di quel che dovrebbe proporsi un governo orientato al liberismo economico.
Poiché non credo che Sacconi agisca come agisce senza sapere quello che fa, ritengo che il suo progetto sia frutto della infiltrazione socialista nel “partito di centro, moderato e liberale” che ha portato al governo sin troppi esponenti del vecchio psi.
E stupisce il silenzio dei “vecchi” liberali che, in tal modo, inducono in errore i giovani “liberaliliberisti” che sostenendo il progetto Sacconi - nel quale rilevano solo ciò che appare in superficie – preparano la corda con la quale i socialisti di sempre tenteranno ancora una volta di soffocare le libertà individuali, tra le quali esiste anche quella sindacale.

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18 ottobre 2008

I sacchi a pelo non sono strumenti didattici

In questi giorni assistiamo ad un deja vu, dopo 40 anni o 30 se vogliamo richiamarci al 1977, dei moti di piazza studenteschi che, uniti a quelli operai del 1969, ridussero l’Italia sull’orlo della bancarotta dalla quale ci siamo allontanati grazie al sacrificio di tanti e ad una pressione fiscale che ci ha reso tutti più poveri.
Poiché ho “vissuto” in diretta sia il 1968 (e seguenti) che il 1977, non mi meraviglio di come greggi di studenti preferiscano seguire le demagogiche parole d’ordine di quattro caporioni che, alla faccia della loro platea plaudente, saranno gli unici a guadagnarci, vivendo una felice esistenza senza lavorare (il 1968 docet …).
Gli altri saranno costretti dalla vita a confrontarsi con la dura realtà che li vedrà in posizione di inferiorità nei confronti di chi non ha partecipato alle kermesse piazzaiole e, globalmente, nei confronti dei coetanei di altre nazioni che, senza troppi grilli per la testa, hanno continuato a studiare (per la cronaca: c’è un revival dello studio del Latino all’estero, mentre in Italia, dove siamo legittimi eredi della Romanità, stanno scomparendo dalla memoria comune persino i vecchi, cari, utilissimi “brocardi”).
Se io fossi genitore di un ragazzo in età scolare, pretenderei che il preside facesse sgomberare le aule, dove si deve andare per studiare e non per dormire nei sacchi a pelo e, qualora non lo facesse, lo denuncerei per omissione di atti di ufficio e correità nella interruzione di pubblico servizio.
Ed in assenza di interventi della Forza Pubblica potrebbero essere gli stessi genitori contrari a far perdere giornate di lezione ai propri figli ad intervenire per liberare le aule.
La saggia restaurazione che il ministro Gelmini ha iniziato, deve essere portata a rapido compimento, per ripristinare Autorità, Disciplina, Gerarchia, Ordine, che se non sono valori assoluti come la Libertà, l’Onore, l’Onestà, sono fondanti per una comunità civile che voglia crescere.
Certo, è difficile pensare che docenti e genitori che occupano le scuole con gli studenti e, anzi, proiettano in loro i ricordi di una adolescenza passata nello stesso modo, possano rappresentare quella autorevolezza, quella figura gerarchicamente superiore che, con la sua sola presenza, imponga Disciplina e Ordine.
Allora dobbiamo domandarci se valga la pena spendere miliardi di euro per una scuola pubblica che più disastrata non si può.
Se valga la pena depauperare le nostre risorse finanziarie personali e pubbliche, senza ottenere lo scopo per le quali quelle risorse sono impiegate.
Per quale ragione dovremmo mai continuare a pagare 4 insegnanti per una sola classe, quando la storia ci insegna che il maestro unico era “IL Maestro”, Autorità non contestata ed alla quale obbedire, imparando a rispettare la Gerarchia, conoscendo l’Ordine e applicando una corretta Disciplina ?
Per quale ragione dovremmo spendere soldi che potremmo meglio impiegare in altro modo, per creare classi composite, in cui vi sono elementi che neppure conoscono l’italiano, sono disadattati e in tal modo ritardano l’apprendimento dei nostri ragazzi ?
Allora diciamo: basta.
Basta con i finanziamenti a pioggia e indiscriminati.
Basta con i mille rivoli di una spesa pubblica senza controlli.
Basta con una scuola che non insegna e non forma.
Basta con la scuola pubblica.
Scommettiamo che quando i genitori dovranno grattarsi in tasca propria per mandare i figli a scuola, invece di appoggiare le loro “rivendicazioni” torneranno a mollare un paio di sani ceffoni dicendo: “a studiare !”.
Scommettiamo che quando gli insegnanti, per la loro retribuzione, dipenderanno dalla qualità dell’insegnamento che porta molti iscritti al loro istituto, smetteranno di rivivere il loro sessantotto e torneranno ad insegnare italiano e greco, storia e geografia ?

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17 ottobre 2008

Me ne frego di Kyoto !

Leggo che un individuo della commissione europea, critica l’Italia perché sarebbe fuori dai parametri imposti dal protocollo di Kyoto.
L’esternazione del commissario europeo (di cui non ricordo il nome, tanto è importante …) è il miglior riconoscimento al governo Berlusconi per la sua fattiva azione a favore degli interessi italiani.
Infatti il protocollo di Kyoto vorrebbe imporre agli stati sviluppati una drastica riduzione di determinate emissioni, che si traduce in pesantissimi limiti e costi per le nostre industrie.
Al contrario lo stesso protocollo lascia ampi margini per inquinare ai cosiddetti “paesi in via di sviluppo” , consentendo loro ciò che da noi non è ammesso, con l’aggravante che da loro i sistemi di controllo, gli strumenti, i mezzi sono talmente meno accurati da produrre, a parità, ben più emissioni inquinanti di quanto non ne produciamo noi.
Berlusconi ha messo (spero non si contraddica nel futuro) una pietra tombale su questa discriminazione, decidendo che è più importante la ripresa economica del rispetto di un pezzo di carta sbilanciato a favore dei paesi “in via di sviluppo”.
Tale protocollo, infatti, è scritto nella tipica ottica comunista di abbassare il livello di sviluppo e di benessere e non di puntare ad elevare ai livelli più alti quelli bassi.
I divieti che vorrebbe imporre ai paesi industrializzati dell’Occidente abbasserebbero il nostro livello di produttività e di benessere, aumenterebbero i costi e determinerebbero un impoverimento globale che sarebbe accentuato in questo periodo di crisi finanziaria.
Noi vedremmo abbassare sensibilmente il nostro tenore di vita, senza che sia alzato quello dei paesi terzi.
Ergo: bravo Berlusconi (tieni duro !) e dillo chiaramente anche tu.
Me ne frego di Kyoto !


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16 ottobre 2008

Scuola:sì alle classi differenziali

Non so quanti, leggendo il titolo, riescano a collegare le due parole “classi differenziali” con le “classi ponte” approvate alla camera con la mozione Cota.
Le classi differenziali erano, negli anni sessanta e settanta prima della loro incauta abolizione dovuta alla massificazione voluta dalla sinistra, quelle classi dove venivano inseriti tutti i bambini troppo “vivaci” o troppo lenti nell’apprendimento che, con la loro vivacità o con la loro lentezza, danneggiavano il regolare apprendimento degli altri bambini.
Le classi differenziali servivano dunque ad un duplice scopo:
1) permettevano il regolare svolgimento del programma di studi per i bambini che non manifestavano né troppa vivacità, né troppa lentezza nell’apprendimento;
2) aiutavano questi bambini ad apprendere, con corsi e lezioni mirate
.
Era talmente normale l’esistenza di simili classi che, a Bologna, una scuola era pressoché interamente dedicata loro.
Arrivò poi il sessantotto, la sinistra massificatrice e circa 30 anni fa le classi differenziali furono abolite.
I programmi scolastici non furono più rispettati e così abbiamo il risultato di una scuola dissestata come è quella di oggi.
Da alcuni anni al cronico e naturale problema di bambini troppo vivaci o troppo lenti, si aggiunge anche quello dei figli degli immigrati che non conoscono l’italiano e sono motivo di ulteriore danno per tutti, rallentando i programmi, ma anche essendo motivo di disturbo nella complessiva economia di una classe il cui buon apprendimento deriva da svariati fattori, non ultimo quello della omogeneità delle basi di partenza.
La mozione Cota, approvata dalla camera, ha deciso l’introduzione di “classi ponte” che altro non sono che le vecchie classi differenziali.
Dopo la restaurazione del voto in condotta, del grembiule, del maestro unico, finalmente si è compreso che anche la qualità della classe deve essere oggetto di intervento per tornare ad avere studenti che studiano con profitto e, così si pensa di restaurare le classi differenziali.
Non posso che esserne lieto.
Ricordo un mio amico di infanzia che ha frequentato quelle classi ed ora è uno stimato professionista.
Non si è laureato, ma i docenti di allora (altra tempra, altra qualità rispetto a quelli di oggi: allora insegnare non era un mestiere e neppure una professione, ma una missione !) riuscirono a fargli capire che poteva realizzarsi in altro modo che non con i libri.
Così è stato.
Ne ha guadagnato lui, ne abbiamo guadagnato noi che con il nostro maestro proseguimmo e completammo regolarmente il nostro programma di studi.
Mi piacerebbe che il ministro Gelmini avesse il coraggio di non centellinare le riforme che si propone di fare, ma di esprimere, sic et simpliciter, la volontà di restaurare la scuola secondo la Riforma Gentile, l’unica che sia seria e fruttuosa, per chi studia e per la società.
In questi giorni studenti, docenti e genitori sono uniti nell’orgia scioperaiola e si rivedono gli istituti occupati.
Ecco se questa è la scuola pubblica che dobbiamo pagare, allora ben vengano i tagli, anzi ben venga l’azzeramento di ogni finanziamento e la soppressione della scuola pubblica, perché è inutile, anzi dannoso, pagare per una scuola nella quale i docenti e i genitori incitano gli studenti non a studiare (che sarebbe il loro unico compito) ma a scioperare ed occupare le aule.
Non mi va che i miei soldi siano spesi per costoro, preferisco che mi siano lasciati in tasca per pagare eventualmente una seria scuola privata, all’antica, con un programma da seguire e che sarà svolto senza grilli per la testa.

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15 ottobre 2008

Chi ha paura della Croce Celtica ?

Un gruppo di “tifosi” che a Sofia hanno ecceduto nelle loro provocazioni, ha riportato nel dibattito la questione della simbologia presunta “Fascista”.
Saluti Romani, canzoni del Ventennio, slogan inneggianti ad una persona morta e sepolta da oltre 60 anni e, anche, Croci Celtiche.
Per l’occasione si sono rispolverate tutte le liturgie, gli anatemi e gli esorcismi dell’antifascismo, con la comica offerta da un La Russa che cercava di acquisire benemerenze antifasciste chiedendo, con la bava alla bocca come un qualunque Forlani, solo un po’ più luciferino, pene severissime per i nostri “tifosi” .
Ma soprattutto si è ripetuta la stucchevole citazione di una pessima legge, la 205 del 1993 più conosciuta come “Legge Mancino”, brandita come una clava da quanti vorrebbero impedire la manifestazione di idee e del libero pensiero, nonché di simboli universali che appartengono all’Occidente, da secoli, e non possono essere proibiti solo perché questo o quel gruppo politico ne hanno fatto una loro bandiera.
Il ridicolo di cui si coprono simili individui è elevato all’ennesima potenza se si considera che ritengono perfettamente normale esibire uno straccio rosso, che rappresenta una ideologia che ha provocato cento milioni di morti, oppure l’ effige di un criminale assassino come Guevara.
Già con il Saluto Romano (Romano, non Fascista !) ho avuto modo di condannare la repressione che vorrebbero porre in essere i “politicamente corretti”, il divieto che vorrebbero surrettiziamente porre nell’esibire Croci Celtiche mi porta oggi a riaffermare il principio della libertà di espressione e di manifestazione delle idee, come fondante una comunità civile.
I “tifosi” di Sofia vanno puniti perché hanno bruciato la bandiera bulgara (come andrebbero puniti quelli che, in Italia, al riparo di uno straccio rosso o dell’effige di un criminale sudamericano bruciano le bandiere statunitensi o israeliane), perché hanno provocato scontri con l’opposta tifoseria, perché sono andati allo stadio per picchiare e non per guardarsi una partita di calcio.
Non vanno puniti perché fanno il Saluto Romano o portano la Croce Celtica.
La “Legge Mancino”, pur nella sua riprovevole finalità di repressione politica, non dice affatto questo.
La “Legge Mancino” collega quei simboli a movimenti che, riferendosi poi ad altra legge del 1975, sono ritenuti non degni di poter esprimere le loro idee.
Ora io non credo che qualcuno abbia il diritto di decidere se una idea è o meno degna di essere sostenuta e di trovare libera circolazione con i normali mezzi di diffusione del pensiero.
E’ dovere dello stato punire chi agisce con violenza, chi esercita soprusi nei confronti di altri, non chi espone delle idee.
Anzi: uno stato serio dovrebbe punire chiunque cercasse di impedire ad altri la libera espressione delle idee.
Ancora meno è dovere (e diritto) di uno stato degno di essere tale il proibire di portare simboli che, anche se utilizzati da singole organizzazioni, rappresentano le radici della nostra Civiltà.
E allora la domanda del titolo “chi ha paura della Croce Celtica ?” mi induce a ritenere che ne hanno paura tutti coloro che vogliono far dimenticare le nostre radici, massificare la cultura e, in ultima analisi, distruggere le fondamenta della nostra Civiltà.


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13 ottobre 2008

La crisi sancisce la supremazia della politica sulla finanza

Le borse mondiali hanno subito, in una sola settimana, perdite di valore superiore al 20%.
Le banche hanno mostrato una inaspettata debolezza.
Le aziende anche quelle che, come dice Berlusconi, macinano utili, hanno perso capitalizzazione.
In Italia anche se le banche si sono mostrate più solide delle consorelle straniere, la fiducia popolare è stata incrinata, alimentata da media che soffiano sul fuoco con le loro trasmissioni e articoli apocalittici e da associazioni di consumatori pronte ad approfittare per inaugurare una nuova stagione di cause dalle quali guadagnano solo loro e gli avvocati.
I risparmiatori italiani si sono rivolti a vecchi Bot che, infatti, a fronte di domanda triplicata, hanno avuto la perdita di oltre un terzo dei rendimenti.
In tutto questo non si è colto ancora l’aspetto a mio parere, più rilevante: i “grandi” manager si sono presentati con il piattino in mano davanti ai politici, in passato trattati con sufficienza.
Finanzieri, raiders, “imprenditori”, manager, tutti negli anni passati hanno bacchettato governi e politici, ritenuti inadatti, arretrati, mettendo in piedi un gigantesco castello di carta che sta crollando sotto i loro piedi.
Adesso che le operazioni di ingegneria contabile non riescono a mascherare la inconsistenza dell’economica virtuale che avevano costruito sul nulla, ricorrono, per salvare più se stessi che la loro azienda, alla politica.
E la politica, come la sventurata Gertrude, la monaca di Monza, rispose.
Ma è da pensare che non sarà una risposta “gratis et amore Dei”, ma bensì un rimpossessarsi della supremazia a lungo, troppo a lungo, lasciata all’economia.
E’ un rimpossessarsi di tale supremazia attraverso la strada sbagliata, quella degli aiuti di stato che, poi, paghiamo noi, non certo i politici e che porterà all’emergere di nuovi raiders finanziari sotto forma di manager pubblici, come ai tempi dell’Iri democristiano.
Ma è sicuramente uno scossone salutare ad una casta, quella dei manager “imprenditori”, che ha fatto il suo tempo, con le inaccettabili remunerazioni incassate anche quando si porta al fallimento l’azienda che si amministra.
Il globalismo imperante ha consentito ai governi di concordare i primi, in assoluto, interventi coordinati nella storia e questo ridurrà sensibilmente i danni che saranno apportati dalla attuale crisi che non sono il crollo del castello di carta costruito dai finanzieri o la loro perdita di appeal nei confronti dei politici, ma le perdite che possono subire i cittadini.
E non sto parlando di chi ha investito in fondi o prodotti che contenevano i titoli avariati: in fondo ogni investitore è maggiorenne e deve comprendere che ad un elevato rendimento corrisponde un rischio elevato (e nessuno si è mai lamentato presso gli sportelli bancari dei rendimenti conseguiti negli anni scorsi).
Sto parlando del classico risparmiatore che compra casa, con un mutuo, che ha qualche risparmio per le spese necessarie e il necessario superfluo che rende la vita più gradevole, del pensionato che ha il diritto assoluto, dopo una vita di lavoro, ad anni di serenità decorosa e di assistenza piena.
Sono questi quelli che devono essere tutelati dall’intervento dello stato, del pubblico, non per assistenzialismo, ma nel nome di quella solidarietà che è fondamentale nel concetto di stato, dove più persone si uniscono per vivere meglio, tutti.
Credo che, in tale senso, i provvedimenti che garantiscono i depositi in banca, quelli che contengono il costo del denaro interbancario (a base dei prestiti e dei mutui) siano idonei ad osservare il principio di solidarietà.
Mentre l’intervento nel capitale delle banche, anche solo con un pacchetto (consistente, suppongo) di privilegiate ci porterebbe ad un passato che non deve ritornare.
Così come non devono ritornare i tempi dell’intervento dello stato nell’economia, perchè chi non produce, chi non sa produrre, chi non coglie le esigenze dei cittadini non deve essere salvato, ma deve essere destinato – ed è giusto che così sia – a fallire per lasciare il posto a nuovi imprenditori, più solidi, più produttivi.
Non è pertanto accettabile l’appello della Confindustria che, continuando sulla linea della privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite, auspica l’intervento dello stato a puntellare le traballanti posizioni degli “imprenditori”.
Mentre è auspicabile, questo sì, una revisione delle norme societarie che chiamino a rispondere, economicamente, i manager del loro operato.
Una volta l’imprenditore rischiava di suo.
Se l’azienda andava bene, guadagnava.
Se andava male, tornava anche lui a fare l’operaio o il contadino.
Oggi i manager, che l’azienda vada bene o male, guadagnano lo stesso.
Ecco, dobbiamo tornare all’etica del lavoro di una volta, alla produzione di cose solide, concrete, tangibili, non di teorie finanziarie che ciclicamente si dimostrano solo castelli di carta e dobbiamo tornare al classico “chi sbaglia paga”.
Gli imprenditori che non erano in grado di rinnovarsi, perivano (imprenditorialmente, si intende).
I manager il cui bluff è stato ora scoperto, periscano (sempre metaforicamente).

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12 ottobre 2008

Marina Petrella resta libera: Sarkozy, vergognati !

Oggi volevo scrivere sulla crisi finanziaria.
Per la verità il post lo avevo già scritto nei giorni scorsi … lo pubblicherò domani o in futuro (tanto non va certo a male e la crisi non finirà presto ...) perché c’è un fatto che credo debba scuotere nel profondo tutti gli Italiani onesti.
Sarkozy è come Chirac, come Mitterand: ha negato l’estradizione di Marina Petrella accampando motivazioni “umanitarie” in relazioni alle presunte condizioni di salute della terrorista rossa che, pare, sia ricoverata in un ospedale psichiatrico per “depressione”.
Scommettiamo che adesso che sa che non dovrà pagare per le sue colpe si ristabilirà completamente e la depressione, forse indotta – se mai fosse vera – dal pensiero di dover andare in galera, svanirà come per incanto ?
Sì, perché gli estremisti di sinistra non sono nuovi a queste repentine guarigioni e, quasi quasi, più che a Parigi sembra che abbiano soggiornato a Lourdes, visto che i vari Sofri, Scalzone, Baraldini, tutti dati per moribondi, sono ancora vivi e vegeti e “lottano insieme a” … loro (mi sembra che Scalzone si sia anche fatto rivedere in qualche corteo della sinistra).
Non credo che Berlusconi abbia avuto il coraggio di dirne quattro a Sarkozy che non ha applicato quello stesso provvedimento che abbiamo già commentato in occasione della estradizione di un giovane romagnolo, sotto processo in Grecia per il possesso di droga.
Avevamo scritto che chi sbaglia deve pagare e possedere droga è da punire.
Avevamo scritto che uno stato deve tutelare i propri cittadini e, quindi, quel ragazzo non doveva scontare la pena in un carcere straniero, ma in Italia, fino all’ultimo giorno della eventuale condanna.
Con la Petrella c’è una gravità di gran lunga superiore.
E’ cittadina italiana e non francese, per cui la Francia non ha l’obbligo morale di tutelarla.
E’ stata condannata, con sentenza passata in giudicato, per un omicidio, un sequestro di persona, un tentato omicidio: reati ben più gravi del semplice possesso di droga.
Infine l’aspetto più grave: il ragazzo romano è già in carcere in Grecia, in attesa del processo, mentre la Petrella, condannata con sentenza definitiva, è vergognosamente libera e tale resterà dopo la decisione di Sarkozy.
Cosa dobbiamo pensare ?
La Petrella è l’esempio classico di come non ci sia giustizia e di come, forse, in assenza di una volontà politica di rendere giustizia, si debba tornare ad una attività, anche all’estero, da parte delle Autorità italiane per assicurare ai colpevoli la meritata pena.
C’è chi ha scritto che dovremmo fare come fece Israele nel dopoguerra: catturare, ovunque si trovino, i criminali condannati e far loro scontare la meritata pena (e se è stato consentito e considerato lecito per Israele lo deve essere anche per noi !).
Tutto sommato potrebbe essere una soluzione e uno schiaffo del genere lo meriterebbe anche il signor Sarkozy.

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