Il 9 ottobre 1963 una
immensa quantità di terra, mezza montagna, franò sulle acque
raccolte nella diga del Vajont che superando la diga scesero a valle
distruggendo il paese di Longarone e uccidendo quasi duemila persone.
La vicenda è stata ripetutamente
raccontata in scritti e film, ognuno con la sua visione e la sua
morale, che poi è quella di chi ha scritto quei racconti e girato
quei film.
Ognuno ha individuato i suoi colpevoli
e tratto la sua morale.
Nel cinquantesimo anniversario di
quella immane tragedia io intendo rendere omaggio alle quasi duemila
vittime con questo commento che parte dal ricordo di un bambino di
quasi sette anni.
Tanti ne avevo quel 9 ottobre 1963
quando accadde la disgrazia e noi ne fummo informati dalla
televisione le cui notizie ci furono spiegate dai nostri genitori e
dalla maestra che ci guidava in quella seconda elementare (anno di
esame, allora, prima di passare in terza) che avevamo iniziato da
pochi giorni.
Ricordo che, come si usava in quei
tempi, vennero istituite delle raccolte di fondi (“collette”
venivano chiamate) che servivano anche a sensibilizzare alla
solidarietà (non all’assistenzialismo !) i bambini.
Mi sembra di ricordare che il lutto
nazionale per la morte di tanti Italiani si manifestò anche con uno
o due giorni di chiusura delle scuole.
I miei ricordi finiscono lì e
riprendono in tempi relativamente recenti, dal 1995, quando partecipai
alla gara di sci aziendale che si svolse (e si svolge) in Val Zoldana.
Dopo aver per i primi due anni
cercato e trovato a fatica un albergo libero vicino alle piste, in
seguito prenotammo sempre a Longarone, dove comunque si svolge la
premiazione serale.
La nuova Longarone è un paese
totalmente nuovo, pulito, ordinato.
Mancano le vecchie case, i vecchi
edifici.
Non manca il ricordo, quanto è stato
possibile recuperare della vita e della storia di duemila persone.
Incombe ancora, sul paese la diga.
Monumentale, massiccia, titanica.
Quando fu costruita era la diga più
alta del mondo, oggi sarebbe la quarta.
Si può visitare dall’esterno.
Sì, perché la beffa più atroce è
che quella diga, orgoglio della scienza umana, ha retto l’urto
dell’acqua ed è rimasta in piedi, solida come il primo giorno e,
oggi del tutto inutile.
Chi ha letto del disastro sa che il
crollo di mezza montagna provocò una gigantesca ondata con la montagna crollata, che nel frattempo, tanta era la forza !, era
risalita sul versante opposto e poi si adagiò definitivamente
nel bacino.
Quelle ondate superarono la barriera
della diga, senza peraltro distruggerla.
Oggi si può camminare sul terreno che
era il fondo del bacino (o forse, la cima della montagna crollata) e
avvicinarsi alla diga.
Il luogo non è molto frequentato e la
solitudine porta ancor di più a sentire la vicinanza con
quella disgrazia che, da casa, sembra così lontana nel tempo.
Visitare il bacino del Vajont,
avvicinarsi ai piedi della diga, raccogliere un pugno di terra e
qualche filo d’erba che vi cresce e sentire, ognuno con la propria
immaginazione, con la propria sensibilità, l’orrore della
disgrazia e la sofferenza dei duemila cuori che hanno smesso di
battere quel 9 ottobre 1963.
Molti dicono: mai più.
E realmente la tragedia del Vajont ci
deve condurre a far tesoro dell’esperienza, perché diversamente
quelle duemila persone sarebbero morte invano.
Questo però non significa rinunciare
al progresso, a costruire, ai sogni.
La diga, come tutti possono vedere, ha
resistito alla potenza delle acque, vuol dire che è stata costruita
con tutti i crismi e le regole della buona ingegneria.
Quel che probabilmente è mancato è lo
studio preventivo idrogeologico o, ancora peggio, se vi fosse stato,
la volontà di spendere qualcosa in più per consolidare il monte o
per costruire altrove.
E’ questo, credo, che dovrebbe
rappresentare l’insegnamento del Vajont e il miglior ricordo delle
vittime della tragedia.
Non si fermi il progresso, ma si
compiano tutte le operazioni, anche le più onerose, per mettere in
sicurezza quel che si costruisce.
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