A
Roma (quella Antica, Nobile e Vera) entrare in politica (cioè
conquistare una magistratura, ma anche essere senatore) rappresentava
un costo.
Bisognava
pagare i propri clientes, organizzare circenses e avere un censo, in
terreni, il cui mantenimento era talmente costoso che molti senatori,
per restare tali, impoverivano rapidamente le finanze della Famiglia
perché il reddito della terra non era sufficiente a compensarne i
costi.
Per
questo motivo, raggiunta una carica, si cercava di ottenere, più o meno legalmente, da essa un rimborso, con gli interessi, per quanto si era
speso.
Abnegazione
e spirito di servizio, sì, ma pirla completi, proprio no.
Nel
tempo, la politica, la carica pubblica, rappresentò la creazione di
un nuovo potere, fondato non più sui nobili lombi, bensì sulla
forza della borghesia produttiva e ricca.
Anche
in questo caso, però, la carica politica serviva allo scopo di dare
una mano di nobiltà ad un casato emerso dal Popolo e se nel
frattempo si riuscivano a stringere alleanze commerciali e
finanziarie, tanto meglio.
La
Serenissima Repubblica di Venezia ha rappresentato, in questo senso,
l’esempio più calzante, con una gloriosa storia di conquiste e di
crescita fondate su un sistema retto da un Doge elettivo, tra suoi
pari, cioè le famiglie di commercianti più ricche che, nel tempo,
sono anche diventate la nobiltà di San Marco.
Questo
equilibrio tra ricchezza di base e chi partecipava alla vita
pubblica che, ancora, aveva una parvenza di onorevole servizio
(ancorchè mai disinteressato) si è rotto quando, con il suffragio
universale, sono prepotentemente entrati nella lotta politica gli
uomini dei ceti più umili, raccolti nei partiti socialisti e quindi
anche confessionali.
Venivano
eletti spesso grazie all’apparato burocratico del partito/sindacato
o alle parrocchie che si mobilitavano per loro, unici in grado di
contrapporsi alla capacità di spesa dei borghesi.
Gli
uomini, si sa, sono deboli e la possibilità di far, indirettamente,
soldi con una semplice appalto o una leggina, è una calamita per
tutti.
Per
chi ha soldi, perché non bastano mai, per chi non ne ha, perché
l’occasione fa l’uomo ladro e non si disdegna la possibilità di
arricchirsi, portando la propria famiglia fuori dalle ristrettezze.
In
ogni caso, la possibilità di arricchirsi o, solo, di migliorare la
condizione economica propria e della famiglia, non era direttamente
legata all’incasso di soldi pubblici, ma alle conoscenze e alle
“bustarelle” che si potevano ottenere favorendo questo o quello
in forza delle propria posizione elettiva.
Era
così anche nell’Italia moderna, finchè i primi scandali emersi
(“fondi neri”) o l’inaridirsi delle fonti di finanziamento "ideologico" (“l’oro di Mosca”) non indusse, tutti d’accordo, i
partiti a regalarsi un finanziamento pubblico, per legge.
Altri
scandali portarono un referendum abrogativo a cancellare quella norma
con il 90% dei voti favorevoli.
I
partiti rivoltarono la frittata e, “rispettando” formalmente la
volontà popolare, trasformarono il finanziamento pubblico in
rimborsi spese.
Lo
fecero così bene che per ogni euro di spesa ne incassano quattro,
con una redditività del 400% dell’ “investimento” (le spese),
livello che nessuna azienda commerciale riuscirebbe mai ad
immaginare.
E
quelli sono tutti soldi pubblici, soldi nostri, ricavati dalle nostre
tasse che Bin Loden Monti ha provveduto ad aumentare in questi mesi (come prevedibile senza apprezzabili risultati paroganabili ai sacrifici visti i risultati odierni di borsa e spread ...).
Cosa
può fare una organizzazione che riceve denaro in misura quattro
volte superiore a quello che spende per l’attività sociale ?
Provvede
a beneficiarne i soci, a cominciare da quelli che ne controllano le
decisioni.
Del
resto una libera associazione privata, come è un partito, ha diritto
a disporre dei finanziamenti che riceve come decidono i suoi organi
direttivi, senza interferenze da parte di controllori esterni che
potrebbero anche decidere non in base a criteri contabili, ma per far
prevalere le loro personali idee, che potrebbero essere in contrasto
con quelle del partito che controllano.
Bersani
e Casini, odierni epigoni di quei partiti socialisti e confessionali, spaventati dai casi Lusi e Belsito, consapevoli che anche i
loro partiti percepiscono rimborsi quattro volte superiori alle
spese, hanno convocato Alfano (che dice sempre “sì” …) e,
tutti assieme, stanno tentando di mettere al riparo il finanziamento
pubblico, magari con qualche effetto speciale, che ne “garantisca”
la trasparenza e la correttezza dell’utilizzo.
Ma
il problema non è nei sistemi di controllo, anche perché un partito
politico deve essere libero di svolgere la sua attività senza
vincoli imposti da terzi, bensì proprio nella fonte pubblica dei
soldi che arrivano nelle casse dei partiti.
Uomini
ladri, tesorieri maneggioni, ci saranno sempre e sempre faranno leva
sui sentimenti di orgoglio, egocentrismo e autostima dei leaders, che
certo non vogliono essere inferiori ai loro omologhi e così se uno
ha una villa in Sardegna, un altro risponde con un appartamento a
Montecarlo (magari .
Se,
quindi, continuerà ad affluire denaro pubblico nelle casse dei
partiti (anche ridotto del 75% rispetto ad oggi) quello sarà sempre
ripartito in modo che i dirigenti nulla abbiano a rimetterci: avete
mai visto un politico povero ? Io no.
L’unica
alternativa è chiudere i rubinetti del finanziamento pubblico e
costringere i partiti a vivere “del loro”, cioè dei contributi
dei privati, dell’autofinanziamento degli iscritti e degli eletti e
dei militanti.
Sarebbe
un imbroglio che perpetuerebbe l’attuale stato di cose anche
l’attribuzione di un “per mille” tratto dalla dichiarazione dei
redditi, perché sarebbero comunque soldi dei contribuenti.
Un
partito, come un giornale o qualsivoglia altra attività, non deve
basarsi sul contributo pubblico, ma sui finanziamenti privati e sulla
capacità di vendere i propri prodotti che, nel caso dei partiti,
sono le idee e la capacità di realizzarle.
L’unica
alternativa a questi cicliche vicende che probabilmente non sono
reati, ma malcostume sicuramente sì, è la abolizione tout court di
ogni finanziamento ai partiti fatto con soldi pubblici.
Ogni
altra soluzione che contempli la continuazione del flusso di denaro
dalle nostre tasche alle casse dei partiti per il tramite dello
stato, vorrebbe dire lasciare le cose come stanno e porre le premesse
per future, analoghe vicende.
Che,
infatti, cambiare modalità non sia un gran danno per i partiti, lo
dimostra la velocità con la quale Bersani e Casini si sono attivati
per rendere la legislazione “più trasparente” … mantenendo
però il finanziamento pubblico e senza minimamente pensare ad
abolirlo per tornare a raccogliere fondi tra i privati in base alle
proprie idee e capacità.
Anche
questa è una piccola furbizia che deve formare oggetto di
riflessione per decidere a chi dare il voto.
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