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13 settembre 2010

C'era una volta la scuola

Oggi, in mezza Italia, hanno riaperto le scuole e le torme di ragazzi che, festosamente, si incontravano dopo i mesi delle vacanze, hanno segnato il passaggio dall’estate all’autunno.
Per chi, come me, i 13 anni scolastici sono stati caratterizzati da una data simbolica, il 1° ottobre, questa varietà di “primo giorno di scuola”, sempre diverso da anno in anno e anche da regione a regione, toglie molto del sapore e della poesia di un momento che, quando lo si vive, scorre spesso senza bagliori ma negli anni successivi diventa fonte di dolce nostalgia per ricordare “come eravamo”.
Ma il primo giorno di scuola, ancorchè in formato spezzatino, è l’occasione per una riflessione su quell’importante componente della società che è l’istruzione dei più giovani.
Istruzione che non può essere disgiunta dalla educazione, spesso latitante anche e soprattutto per colpa di famiglie troppo distratte.
L’anno scolastico che si apre è caratterizzato da una forte protesta degli insegnanti cosiddetti precari che contestano tagli e riforme del Ministro Gelmini, forse il miglior ministro dell’Istruzione, dopo Gentile, che abbia avuto l’Italia unitaria.
C’era una volta la scuola, dove si insegnava, dove la selezione preparava alla vita, dove ogni studio superiore preparava a specifici ruoli e solo uno, il liceo classico, consentiva di accedere a tutte le facoltà, dove la conoscenza non era disgiunta dalla educazione.
Era una scuola in cui, certo, i figli dei più ricchi erano favoriti, agevolati, ma dove chi ricco non era poteva sperare di dare una solida, utile, vera istruzione ai propri figli che potevano avanzare negli studi con gli aiuti per i “più capaci e meritevoli” e trovare una collocazione professionale adeguata ai sacrifici.
Terminare gli studi era, quindi, un primo successo nella vita, una base per raggiungerne altri cui si era stati preparati e formati, anche culturalmente.
Poi arrivò “il sessantotto” e quella scuola finì.
Finì per l’insipienza di governi e ministri deboli e paurosi (quelli che mi ricordo si chiamavano Misasi e Malfatti, Falcucci e Sulloriformatore fasullo”) che non seppero appoggiare presidi e professori nel loro tentativo di continuare a trasmettere cultura.
Arrivarono le promozioni di massa, la liberalizzazione dell’accesso alle facoltà universitarie (causa prima degli attuali "numeri chiusi"), le assunzioni galoppanti di insegnanti, le assemblee e le occupazioni.
Gli insegnanti cresciuti con il culto del sapere e la consapevolezza che quella era una “missione” furono isolati, invecchiarono, andarono in pensione e furono sostituiti da un personale figlio di quel sessantotto devastante e devastatore.
Poco lavoro, poco stipendio, un tacito accordo con uno stato piccolo piccolo, che chiedeva poco e in cambio riceveva in proporzione.
La scuola era divenuta un approdo sicuro che concedeva tanto tempo libero per scrivere un libro o dedicarsi ad altre attività lasciando all’insegnamento scampoli di impegno, mentre per gli studenti era un parcheggio in attesa di occupazione che, però, si voleva corrispondente al titolo di studio facilmente conseguito.
Gli studi umanisti venivano ridotti e scherniti per lasciare il posto alla “modernità” degli studi matematici e di informatica.
Così sono riusciti a raggiungere la par condicio tra i giovani “vecchi italiani” e i loro coetanei “nuovi italiani”: nell’ignoranza della nostra lingua, dei nostri costumi, della nostra storia, della nostra civiltà, della nostra geografia, del nostro passato le cui radici affondano nella Romanità che si può comprendere appieno solo se si studia – o, almeno, si acquisisce una “infarinatura” - anche il latino (e il greco) .
Intanto continuavano ad essere formate classi, anche per “seguire” quei “nuovi italiani” sempre più numerosi e sempre più frenanti per ogni piano di studio.
Con la scusa della “istruzione pubblica” si sono buttati miliardi essenzialmente per pagare (poco) gli insegnanti.
Il 93% del bilancio dell’istruzione serve a pagare gli stipendi del personale.
Ci sono, ha dichiarato il Ministro Gelmini, più bidelli (absit iniuria verbis) che carabinieri.
I docenti più preparati, più coscienziosi non ottenevano alcun riconoscimento che desse loro quelle motivazioni per continuare, venendo trattati esattamente come gli altri.
Professori che occupano gli istituti e vi dormono nei sacchi a pelo o che, pur all’anagrafe uomini, circolano con i tacchi a spillo non possono certo ispirare rispetto agli alunni, nè avere alcuna autorevolezza.
La Gelmini sta cercando di porre fine a questo scempio.
E tanto più siamo distanti dal suo inizio in quel “sessantotto” di infausta memoria, tanto più dolorosi (e contrastati) saranno gli interventi necessari.
Ma l’obiettivo non può che essere il ritorno alla scuola di una volta:
selettiva: perchè sin dalle elementari dovranno essere incentivati agli studi i “capaci e i meritevoli” e mandati a fare le prime esperienze lavorative i lavativi e chi, pur con tutta la buona volontà, non riesce;
educativa: perchè deve preparare non solo il professionista di domani, ma anche l’Uomo e il miglior insegnamento si ha dai classici della letteratura italiana e latina, dalle speculazioni dei filosofi e dalla conoscenza della nostra storia;
con insegnanti motivati e ben pagati e perchè sia così non possono essere un esercito, come non può esserci una pletora di studenti presenti solo perchè alle famiglie torna comodi parcheggiarli a scuola o per conseguire “un pezzo di carta” svalutato e privo di sostanza;
con programmi aggiornati ma che non siano prigionieri dell’ideologia e neppure succubi della necessità demagogica di trascinare quegli alunni (a cominciare dai “nuovi italiani”) che non sono in grado di tenere il passo;
economicamente sostenibile per la società, perchè la scuola, come tutti i servizi, deve essere gestita con criteri di economicità, a livello di istituto, a livello locale e nazionale.
Comprendo la rabbia e la reazione di molti insegnanti che ritengono di essere stati penalizzati (e probabilmente è così) dal fatto che “solo” adesso si è cominciato a mettere mano nella scuola, ma l’onere della scuola uscita dal “sessantotto” era insostenibile e, lasciato correre per oltre quaranta anni, adesso ha provocato tagli più che dolorosi ma assolutamente necessari.
La strada che ha imboccato la Gelmini non porta alla popolarità, ma sicuramente è l’unica che possa consentirci di tornare, forse tra una generazione, a produrre cultura e a trasmetterla ai giovani, come è sempre stato, almeno fino alla sbornia ugualitaria e massificante del sessantotto.



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1 commento:

Starsandbars/Vandeaitaliana ha detto...

Letto e sottoscritto.
Due cose:
1)ho fatto leggere a Mia Moglie:è insito nella mentalità comunista non premiare i meritevoli. In Romania ritiravano la busta paga sia i professori coscienziosi che quelli imbelli e fannulloni. Inoltre gran parte dei lavori intellettuali erano pagati molto meno di certi materiali. I famosi "minatori" che servirono poi ad Iliescu per poi riportare l' ordine neocomunista nel 1990 erano i più pagati tra questi, e godevano di molti privilegi.

2)Quando fui eletto nel Consiglio d' Istituto nelle Medie di Mia Figlia, scoprii con orrore che i bidelli non puliscono più i bagni, ma si pagano bei soldini per farlo fare a ditte terze...