Non ci sono mai stati dubbi sulla colpevolezza dell'imputato, che è stato infatti condannato all'ergastolo, cioè al "fine pena mai", la sanzione più grave e definitiva prevista dal nostro ordinamento.
Con una lettera evidentemente tendente ad una captatio benevolentiae, il condannato annuncia di rinunciare all'appello, accettando la pena dell'ergastolo per la gravità del suo crimine.
L'appello, invece, lo propongono i pubblici ministeri, non contenti della massima pena, perchè non sono state contemplate le aggravanti tra cui il cosiddetto "stalking", cioè l'atteggiamento persecutorio.
Qualora fossero state considerate quelle aggravanti, non ci sarebbe stata una pena superiore, perchè l'ergastolo è il massimo possibile.
Capisco che "è una questione di principio", cioè che con un sistema giudiziario imbalsamato e di parrucconi, un precedente diventa un qualcosa cui capziosi Azzeccagarbugli potrebbero appigliarsi in un caso futuro, ma i giudici ci stanno proprio per evitare le storture simili, dovendo dirigere i processi come un vigile dirige il traffico, cioè cercando di snellire e arrivare, il prima possibile, ad una sentenza che sia certa e al di sopra di ogni ragionevole dubbio.
Mi domando pertanto, con il conclamato intasamento dei tribunali e la lunghezza esasperante dei nostri procedimenti, con quale criterio si possa concepire un ricorso in appello da parte dei pubblici ministeri, dopo che l'imputato, rinunciandovi, aveva accettato di scontare l'ergastolo, cioè il massimo della pena.
Tempo, costi, dolore rinnovato per arrivare ad una condanna che non potrà, in Italia, mai essere superiore a quella già comminata e accettata dall'imputato.
E qualcuno pensa ancora di votare contro la riforma della giustizia ?

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